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10 FEBBRAIO 2022
Rischio cardiovascolare nella popolazione transgender: perché risulta più elevato rispetto ai cisgender?
AUTORE DOTT. ANDREA DELBARBA
Riproponiamo parte del testo scritto e pubblicato per l’AME (Associazione Medici Endocrinologi).
INTRODUZIONE
Recenti pubblicazioni confermano che la popolazione affetta da disforia/incongruenza di genere (ovvero persone che presentano un genere esperito differente da quello assegnato alla nascita) presenti un aumentato rischio cardiovascolare rispetto ai coetanei cisgender [1]. Tale dato è di rilievo, tanto più se si considera la stima della popolazione coinvolta: in Italia le persone con disforia di genere sono in continuo aumento, con una prevalenza di circa 1 su 10/12.000 per gli individui AMAB (assegnati maschi alla nascita ma con differente genere esperito) e di 1 su 30.000 per gli AFAB (assegnati femmine alla nascita ma con differente genere esperito) [2]. L’argomento risulta quindi di particolare rilievo, tanto che recentemente la prestigiosa American Heart Association (AHA) ha pubblicato uno statement dedicato alla salute cardiovascolare della popolazione transgender [3].
DETERMINANTI DEL RISCHIO CARDIOASCOLARE NELLA POPOLAZIONE TRANSGENDER
Lo statement dell’AHA [3] raggruppa i fattori di rischio cardiovascolare in quattro categorie: fattori di rischio cardiovascolare tradizionali, terapia ormonale di riassegnazione di genere, fattori di stress psicosociale e comorbidità.
1) fattori di rischio cardiovascolare tradizionali
2) terapia ormonale di riassegnazione di genere
Oltre ai sopracitati effetti della terapia ormonale sui principali parametri cardio-metabolici, va considerato se tale terapia si associ o meno di per sé ad aumentato rischio cardiovascolare. In letteratura, è riportato un aumentato rischio tromboembolico nelle persone transgender che ricevono una terapia ormonale femminilizzante a base di estrogeni [9]. Sono invece discordanti ed inconclusivi i dati in merito al rischio tromboembolico in corso di terapia mascolinizzante con testosterone [9].
3) fattori di stress psicosociale
Non devono essere sottovalutati fattori di rischio quali gli episodi di violenza, la discriminazione, la difficoltà di accesso alla rete sociale e all’assistenza sanitaria. Ovvero, non deve essere trascurata quella che alcuni definiscono “minority stress theory”, la cosiddetta “teoria dello stress da minoranza di genere” [3]. Tale approccio suggerisce che alla base della peggior salute cardiovascolare riportata nella popolazione transgender vi siano fattori di stress psicosociale legati alla percezione stessa di appartenere ad una “minoranza” rispetto alla popolazione generale [3]. Tale modello, cosiddetto biopsicosociale, sostiene l’ipotesi che le differenze riscontrate in termini di salute siano correlate a risvolti sociali che, purtroppo, possono impattare negativamente sulla persona transgender, quali: lo stress di appartenere ad un gruppo ritenuto di “minoranza di genere”, lo stigma, la discriminazione, il rifiuto, il nascondere la propria identità di genere e la vittimizzazione [10]. Tutti questi aspetti a loro volta possono provocare ansia, depressione e stili di vita scorretti, con conseguenti ricadute sfavorevoli sul rischio cardiovascolare [10].
4) comorbilità
Infine non devono essere trascurati i fattori di rischio cardiovascolare non tradizionali, che possono comunque avere un impatto negativo sul profilo cardiovascolare: infezione da HIV, utilizzo di sostanze d’abuso, altri farmaci o patologie (3).
CONCLUSIONI: È NECESSARIO UN CAMBIO DI PARADIGMA VERSO UN APPROCCIO INTEGRATO PER LA GESTIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Lo statement dell’AHA (3) ci sottolinea pertanto che tutti i fattori di rischio cardiovascolare sopra esaminati non devono essere considerati singolarmente, ma vanno indagati unitamente nel determinare il rischio cardiovascolare dell’individuo transgender. Solamente una gestione integrata e multidisciplinare di tutti questi fattori è in grado di tutelare la salute cardiovascolare delle persone transgender.
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